Albero
Scompare l’occhio verde tra i
muri l’albero dell’antico parco
àrbos àrborem arb addossato
sul nuovo casamento il
cemento intorno àrbor ardh
comprime si allarga invade stringe
(l’albero) avvizzito legno secco
àrb urv: produrre urv-àra ter
ra fertile ardh-yà-ti l’alberto (den
tro il cemento) della metropoli.
Guido Ballo, Albero, in Alfabeto solare, Palazzi Editore, Milano, 1973
Urv-àra – albero, terra fertile
Era tanto tempo che pensavo a questo lavoro sugli alberi durante la potatura e mi ero più volte rivolta al Comune di Milano per sapere in quali zone della città avrebbero iniziato la potatura. Quando poi iniziai questa ricerca e pensai al titolo, andai a cercare le origini della parola albero
in latino, greco e sanscrito e trovai urv-àra che in sanscrito significa albero e terra fertile. Mi accorsi che stavo praticando una ricerca sull’etimologia – tanto cara a mio padre – e ripercorrevo in qualche modo un suo pensiero. Fu allora che mi ricordai di una sua poesia intitolata proprio Albero. La rilessi e fui sorpresa di aver fatto proprio quest’esperienza con la fotografia. L’inconscio o la memoria inconsapevole esistono.
Marina Ballo Charmet
FRANCESCA PASINI: La città ci riguarda, nel senso che fa parte di noi, “ci vede”, e “ci riconosce”. L’hai osservata come un organismo vivente, intuendo di essere “ri-guardata”, come raccontano le tue serie fotografiche, in particolare Con la coda dell’occhio. Hai spostato lo sguardo vicino al terreno, per captarne la fisicità e assecondare il ritmo del magmatico organismo della città. Urv-àra è il titolo della nuova serie dedicata agli alberi. Hai scelto il momento della potatura. Hai rincorso, tra i binari del tram, lungo i marciapiedi e i giardinetti, ammassi residui di foglie e rami: li hai ritratti con un occhio opposto a quello della prospettiva classica, dove oggetti e figure tendevano all’infinito in simpatia con l’universo, al cui irraggiungibile centro c’era Dio.
Hai scrutato da vicino le tappe della loro vita, nel momento in cui si rigenerano. Sono figure carnali, imprevedibili, aggrovigliate, guidano l’empatia tra la percezione umana e la vita naturale. Sono lontane dallo sguardo antropocentrico, anch’esso all’origine della grande invenzione della prospettiva che dagli inizi del Rinascimento ha influenzato l’arte e la raffigurazione del visibile. Gli urv-àra rivelano piante, animali, persone che convivono in una reciprocità “finita”, che non ha mai un solo centro. Introducono la mobilità del nostro sguardo dentro la dualità natura-cultura.
Anche Urv-àra ci dà l’occasione di parlare della nascita di una diversa prospettiva: il modo con cui hai ritratto gli alberi ci mette di fronte a una sinergia molto interessante rispetto all’idea della prospettiva.
Urv-àra, che tradurrei alberi fertili, per unire il doppio significato del termine sanscrito, parla di alberi urbani, tagliati, ma fertili perché la potatura fa parte della loro vita. Hai ritratto quelli che delimitano le strade, gli incroci, i marciapiedi, quelli che entrano nell’urbanistica della città, e non quelli nei giardini o nei parchi, che alludono alla natura.
La prospettiva abbassata, a terra, finita, è la metafora del fatto che possiamo guardare non solo con gli occhi, ma anche con i piedi, le gambe. Quindi con tutto il corpo. Non è una prospettiva frontale: e mentre ti abbassi intercetti la relazione tra te e la natura che vedi attorno.
Entra un altro grande tema, la relazione natura/cultura, che è una dualità come quella di soggetto/oggetto. Se introduciamo in queste dualità lo sguardo in più del soggetto che prende corpo nella foto, si apre una mobilità rispetto alla realtà oggettiva e soggettiva, perché introduce la conoscenza emotiva che fa parte integrante di quella razionale.
Cosa significa trovarsi vicino a terra? Significa simbolicamente il “finito”, significa il corpo che hai sempre ritratto in tutti i tuoi lavori.
MARINA BALLO CHARMET: La natura e il rapporto tra natura/cultura è una cosa che mi ha sempre interessato e su cui avevo già lavorato nella serie Con la coda dell’occhio e in particolare Il parco, sull’abitare il parco pubblico. Non si sa poi come mai vengano in mente dei progetti, ma più volte avevo pensato a questi alberi che stavano nel viale, dentro al cemento, vicino alle rotaie, sui marciapiedi. Quindi non più il parco, non più il verde soltanto ma il verde “dentro” molto in contatto con gli elementi forti della città. L’aspetto della natura dentro alla cultura.
Quello che mi interessava era l’aspetto del corpo. Sono pezzi di alberi tagliati, quindi c’è l’idea del frammento che è la metafora di quello che viene distrutto ma, in realtà, la potatura è anche un momento di rigenerazione. Dal termine sanscrito urv-àra viene fuori il concetto della terra fertile. La potatura è il momento che dà una nuova possibilità di crescita all’albero e di dare poi fioritura. C’è l’aspetto del futuro nello stesso momento in cui c’è la distruzione. Ho fotografato sia alberi da estirpare sia frammenti di alberi già tagliati: mi aveva colpito in particolare l’aspetto di questi corpi e anche il loro rapporto col cemento, come quando a volte vediamo le radici che vengono fuori dappertutto.
Come dicevi tu Francesca, l’altezza della ripresa, dal basso, è quella che ho quasi sempre utilizzato perché per me la fotografia non deve riprendere descrittivamente l’oggetto o il luogo che abbiamo di fronte quanto cercare di renderlo in un rapporto empatico nel modo più neutro possibile. Mi interessa avere un rapporto, una relazione con l’oggetto, il luogo. Quindi il fatto di abbassare lo sguardo è un non-controllare riprendendo lo sguardo del bambino piccolo che ha due-tre anni.
C’è il recupero dell’infans che è in noi e anche dell’aspetto del preconscio. Ho una formazione filosofica e psicanalitica, faccio da trent’anni la psicoterapeuta nei servizi pubblici e con i bambini e credo che questo c’entri anche con i miei progetti con la fotografia e il video. Da quando per me è nata la passione della fotografia e del video, a metà degli anni Ottanta, la mia idea è stata quella di utilizzare questo mezzo non tanto per descrivere l’oggetto ma per rendere la nostra mobilità e l’aspetto laterale dell’oggetto che noi percepiamo, quindi le cose che sono lasciate cadere dalla mente e sono al margine, gli scarti del nostro vivere quotidiano.
Lo scarto e il margine in quanto periferia. Il mio interesse è quello di recuperare l’aspetto della periferia della percezione – cioè non riprendere analiticamente e descrittivamente meglio di come si vede con l’occhio nudo – rifacendomi ad alcuni teorici dell’arte e della psicanalisi, in particolare Anton Ehrenzweig, studioso inglese che negli anni Cinquanta ha recuperato il concetto di visione periferica, che è ciò che vediamo alla periferia del nostro sguardo e che, a volte, può essere più ricca di uno sguardo analitico centrale, razionale che diventa anche un atto di potere sull’oggetto, sul luogo.
FRANCESCA PASINI: Il punto di vista collegato al bambino e alla sua altezza, lo chiamerei anche “vedere coi piedi”, sembra un’assurdità, ma l’ho “materialmente” sperimentato nelle tue visioni.
Nella serie Con la coda dell’occhio, mentre fai foto straordinarie ai cordoli dei marciapiedi catturi la fisicità dello sguardo. Non è solo guardare sotto, in basso, è un’attenzione verso questo basso che riteniamo sempre invisibile e che improvvisamente diventa vero. Parli dello sguardo periferico, ma nel momento in cui lo ritrai, offri un diverso, possibile centro con cui misurarci. Non è però l’unico centro: mentre vedo il cordolo, appaiono sinergicamente i ciuffi d’erba, la polvere.
Nella tua bellissima mostra al Museo del Novecento del 2015, assistiamo, invece, a un “miracolo a Milano”: il “tuo” selciato diventa umido, forma una liquidità totale e, alzando gli occhi, sul fondo, ecco il Duomo. C’è la sorpresa di sentirsi contemporaneamente davanti alla città e immersi nella città, attraverso il Duomo
e la distesa acquatica del selciato, che occupa praticamente lo spazio intero dell’immagine. È lo “shock nervoso”, che l’arte produce, come scriveva Virginia Woolf in Gita al faro.
La posizione dal basso che ci hai descritto riguarda il modo in cui costruisci la realtà delle tue opere. Prima parlavo di una nuova prospettiva: perché sia praticabile c’è bisogno di chi crea e di chi osserva. Io credo che la fotografia sia il linguaggio più “fertile” per instaurare una reciprocità nella prospettiva: frontale, laterale, individuale, compresa quella che proviene dalla terra su cui poggiamo piedi e occhi.
Dalla conversazione in occasione della mostra Urv-àra – albero, terra fertile, alla Quarta Vetrina, a cura di Francesca Pasini, Libreria delle donne, Milano 2017.