Ritratti subliminali di Urbanità

lingue

2008

Joseph Grima

Triennale

italiano

Ritratti subliminali di Urbanità

Nell’ambito del secolare dualismo natura/ cultura, dove si colloca il parco? Sicuramente nelle trincee della cultura, probabilmente ancora più in profondità rispetto alla metropoli stessa.

Non occorre ribadire che i parchi non sono più “naturali” dei campi da golf o degli immensi campi di grano del Midwest americano: in ultima analisi, sono l’incarnazione della campagna tenuta a freno, il simbolo duraturo del tentativo del genere umano di ottenere la supremazia sulla natura e la celebrazione definitiva nella sua riduzione a prodotto ricreativo.

Spesso si dimentica che la gran parte dei parchi trae la sua origine da atti traumatici di sottrazione urbana. Prendete il Central Park a New York: nel 1857 circa milleseicento residenti appartenenti alla classe operaia, che occupavano l’area prima della sua esistenza, furono sfrattati in base alla legge sull’esproprio per pubblica utilità, quando il quartiere chiamato Seneca Village fu completamente cancellato. Ci furono momenti in cui il parco stesso fu lasciato in un abisso di trascuratezza: in seguito allo scioglimento della Commissione per il Central Park nel 1870 e al progressivo declino delle opere di manutenzione, per diversi decenni il sito rimase un deserto urbano incolto. Nel 1974 lo storico Robert Caro scriveva nel suo libro The Power Broker: “I prati, incolti, erano distese di terra brulla, decorate qua e là da chiazze d’erba ed erbacce che diventavano buche polverose con il bel tempo e fangose quando pioveva… Il Mall, un tempo bellissimo, sembrava il teatro di una festa scatenata, la mattina successiva. Le panchine erano ribaltate, con le gambe rivolte verso il cielo...”

Oggi, con un numero di persone che visitano il Central Park ogni anno pari a circa venticinque milioni (è il parco più visitato degli Stati Uniti), una situazione di questo genere è inimmaginabile.

Come ci ricordano le foto di Marina Ballo, i parchi sono uno dei pochi ingredienti essenziali e irriducibili dell’urbanistica contemporanea.

Poiché il grado al quale l’umanità affida la propria sopravvivenza ad ampie distese urbane aumenta di anno in anno, la nostra idea di cosa sia un parco, e del perché esista, cambia e si evolve: nel corso degli anni esso assume sempre meno la forma di un prodotto opzionale e più quella di una necessità cruciale.

I parchi, apparentemente poveri di manufatti, sono a prima vista siti poco adatti a condurre un’inchiesta sull’identità di una città. Tuttavia, le fotografie di Ballo rappresentano qualcosa di più di un’osservazione poetica sociodocumentaristica di come i cittadini abitano le loro città. Nelle sue fotografie il parco è come uno specchio macroscopico nel quale le sfumature e i tratti sottili dell’identità di una città possono essere esaminati uno per uno, principalmente attraverso l’osservazione dei suoi abitanti e delle loro modalità di aggregazione. Le sue foto sono come fotogrammi di un film presi in momenti apparentemente casuali, rispetto al culmine del momento dell’azione: l’assenza di enfasi sui concetti tradizionali di inquadratura e composizione attira l’attenzione verso i dettagli.

La “normalità” è rivelata e celebrata in tutta la sua bellezza.

Questo non è il primo progetto nel quale Marina Ballo stabilisce il punto di vista vicino al terreno, ma è il primo nel quale questa tecnica accresce di fatto la familiarità della scena per l’osservatore e non la rende invece più astratta, più distante dall’esperienza. Nei parchi di Marina Ballo, il punto di vista posto in basso evoca senza retorica l’esperienza dell’essere effettivamente presenti nel parco, occupando uno spazio pubblico vicino a terra, distesi in un ambiente urbano costellato di figure, alcune attive, altre passive, altre ancora in movimento o immobili; composizioni temporanee che esistono solo per una frazione di secondo. Alcune sono inquietanti, altre più idilliache: in definitiva, all’osservatore tranquillo e paziente, le fotografie di Marina Ballo rivelano che i parchi sono gli specchi più nitidi alzati verso le città che li ospitano. È proprio quando le differenze ambientali sono attenuate che il dettaglio diventa importante, allorché trapela una più profonda comprensione di identità.

J. Grima, “Ritratti subliminali di urbanità”, in Il parco/The park, Charta, Milano, 2008 Cat. della mostra a cura di G. Scardi e R. Valtorta, Triennale , Milano, 2008.

/ english

Subliminali Portraits of Urbanity

In the age-old nature/culture dualism, wheredoes the park fall? Probably deeper in the trenches of culture than the metropolis itself. It goes without saying that parks are no more “natural” than golf courses or the vast cornfields of the American Midwest: they are, ultimately, avatars of the countryside kept on a short leash, the enduring symbol of humankind’s quest for supremacy over nature and the definitive celebration in its reduction to a recreational commodity.

It is often forgotten that most parks are born from traumatic acts of urban subtraction. Take Central Park in New York: roughly 1,600 workingclass residents occupying the area prior to its existence were evicted under the rule of eminent domain in 1857, when the neighborhood known as Seneca Village was completely razed. There have been times when the same park was relinquished into an abyss of dereliction: following the dissolution of the Central Park Commission in 1870 and the progressive decline of the maintenance effort, the site existed as an urban wasteland for several decades. As historian Robert Caro wrote in his 1974 book The Power Broker:

Lawns, unseeded, were expanses of bare earth, decorated with scraggly patches of grass and weeds that became dust holes in dry weather and mud holes in wet . . . The once beautiful Mall looked like a scene of a wild party the morning after. Benches lay on their backs, their legs jabbing at the sky ...

Today, with the yearly number of Central Park’s visitors approaching twenty-five million (making it the most visited park in the United States), such a situation is unimaginable. As Marina Ballo Charmet’s photographs serve to remind us, parks are one of the few essential and irreducible ingredients of contemporary urbanism. As the degree to which humanity entrusts its survival to vast urban expanses increases year by year, our very understanding of what a park is, and why it’s there, changes and evolves: over time it takes on less and less the form of an optional commodity and more the form of a climacteric necessity.

Largely devoid of artifacts, parks are at first glance poor sites in which to conduct an investigation into a city’s identity. Ballo Charmet’s photographs are, however, more than a poetic socio documentary observation of how citizens inhabit their cities. Her photographs take on the park as a macroscopic mirror in which the nuances and subtle traits of a city’s identity can be investigated piecemeal, primarily through the observation of its inhabitants and their modes of congregation.

Her photos are like stills taken from a movie at seemingly random moments, as opposed to at the height of the moment of action: the absence of emphasis on conventional notions of framing and composition draws the attention to details. “Normality” is revealed and celebrated in all its beauty.

This is not the first project in which Marina Ballo Charmet sets the point of view close to the ground, but it is the first in which this technique actually increases the familiarity of the scene for the viewer rather than causing it to become more abstract, more distant from experience.

In her parks, the low viewpoint evokes without rhetoric the experience of actually being there, occupying a public space close to the ground, lying down in an urban environment punctuated by figures—some active, some passive, some moving, some immobile; temporary compositions that exist but for a fraction of a second. Some are unsettling, others are more idyllic, vaguely reminiscent of paradisiacal representations of the Garden of Eden before the Fall, minus the animals.

Ultimately, for the quiet and patient observer, her photographs reveal parks as the sharpest of mirrors held up to the cities that host them: it is precisely when environmental differences are attenuated that detail becomes important, and a deeper understanding of identity transpires.

J. Grima, “Subliminali Portraits of Urbanity”, in Il parco/The park, Charta, Milan, 2008 Catalogue of the exhibition curated by G. Scardi and R. Valtorta, Triennale , Milan, 2008.