JEAN_FRANCOIS CHEVRIER: All'inizio, un nome ("Bretagne") e una data ("1990"): due vaghe indicazioni dei primi passi di una biografia artistica.
La prima immagine è una frase. Una veduta di dune erbose in sequenza che restituiscono l'aspetto generico del litorale. Il mare è invisibile. I picchetti e i fili di un esile recinto formano un ostacolo facilmente superabile. L'immagine è chiara, grigia, senza contrasto, il contrario della pittoresca tradizione dell' "angolo di natura"
Nelle prime pagine di L'Enigma dell'arrivo di V.S. Naipaul, il narratore descrive la sua scoperta di un nuovo paesaggio: "Vedevo tutto con estrema chiarezza ma non capivo ciò che guardavo. Non avevo nulla entro cui inserirlo. Ero ancora come in una specie di limbo. Certe cose però le sapevo"
Come un quadrato (o un rettangolo) d'erba non è un angolo di natura, le parti di un litorale non ne fanno un sito. È, letteralmente, un luogo comune (una immagine tipica) del paesaggio all'aperto. Qualcosa che allo stesso tempo è poco e molto, se lo pensiamo in relazione alla storia della pittura. Ma la sequenza introduce un'altra dimensione: il tempo, la durata dello sguardo che percorre la distesa frontale del terreno. Niente a che vedere con le immagini di dune, magnificamente plastiche e inerti, di Edward Weston (piuttosto pensiamo a Raoul Hausmann). Nel 1990, avevi pochi punti di riferimento nella storia della fotografia. Certe cose però le sapevi...
MARINA BALLO CHARMET: il lirismo e la mancanza di alcun tipo di espressionismo. Però come spesso succede, non so come sia arrivata al lavoro Bretagne: a fare cioè una sequenza di tipo non cinetico. Volevo rendere la mobilità della nostra percezione: proprio i colpi d'occhio, rendendo un senso della interruzione della narrazione lineare... C'è un collegamento ma insieme un salto con i miei lavori precedenti della seconda metà degli anni ottanta. Si trattava di lavori sulla luce e sul luogo di confine tra cielo, terra e acqua; e la luce diffusa era già un elemento fondamentale. Oppure ancora prima quelle intorno alla pianura padana dove le cose "erano lì così", nella loro presenza, semplicemente esistevano. Per rendere questo credevo necessario un linguaggio fotografico senza contrasto e senza effetti: il più neutro possibile.
JFC: Non hai seguito la strada della fotografia documentaristica. I fotografi documentaristici lavorano necessariamente nel campo del sapere, governato dal linguaggio. Ma, imparare a camminare è prima di tutto una conquista dell'equilibrio. A seguito di questa esperienza iniziale, tutte le esplorazioni dell'ambiente sono questione di contatto (contatto del suolo, dell'aria circostante). Il bambino sperimenta la sua mobilità come movimento, capacità gestuale. Questa esperienza costitutiva dell'essere vivente corrisponde al processo di auto-affezione che caratterizza la manifestazione della vita individuata. Muovendosi il bambino si sente vivo e scopre la vita nel suo corpo. In Con la coda dell'occhio, questo apprendimento della vita prima del sapere e dell'oggettivazione si estende allo sguardo, alla percezione visiva. Lo sguardo raggiunge il suolo. E il terreno in cambio, dondola, si allunga, fugge, si ammorbidisce, rotola come le onde.
La concisione di Stazione eretta ha la sua controparte nella scorciatoia visuale di Primo campo. La durata dello sguardo ravvicinato si diffonde nel piano, nel campo dell'immagine, ma la sua intensità è quella del tatto, della carezza. Lo sguardo sente un altro corpo più vicino, come il bambino schiacciato contro il corpo materno. La nozione di campo è cruciale, perché definisce al contempo la percezione e lo spazio proprio dell'immagine, ovvero la sua estensione all'interno dell'inquadratura definita dallo scatto.
MBC: Nel 2003, mi ritrovai a pensare di fare un video sui primi passi del bambino che impara a camminare e provai più volte in situazioni diverse ... Era diverso dai miei video precedenti, dove prevaleva l'idea di mettere al centro il " fuori campo ", generalmente scartato perché di nessun interesse evidente. In Stazione eretta sono partita dalla fatica del bambino a stare in piedi. Ho scelto apposta un titolo che è un termine molto freddo. Non si sa mai in modo totalmente cosciente come nascano i progetti ma qui credo che centrasse sicuramente con la mia attenzione all'infans (e naturalmente con il mio lavoro di psicoterapia) e anche con il fatto che avevo potuto approfondire il pensiero di Raoul Hausmann e la sua pozione sulla verticalità.
JFC: Con Rumore di fondo e le sue visioni da sotto, delle facciate dai pesanti balconi (caratteristici dell'architettura milanese), la stazione verticale s'inclina sul piano prospettico del punto di fuga. Il titolo invita a immaginare la presenza sottostante del mare verticale, come accade nella storia della pittura (in Cézanne in particolare). La parete è il coronamento del campo. Il punto di vista contraddice la verosimiglianza naturalistica ma il "rumore di fondo" rimanda alla percezione multisensoriale dell'ambiente circostante. In dieci anni, dal 1993 (Con la coda dell'occhio) al 2003 (Primo campo), hai declinato i parametri psicologici e fenomenologici dell'immagine. Gli estratti dei video (2004-2007) che si susseguono nel montaggio che abbiamo fatto per questo libro, come le immagini dei parchi del 2006-2008 affrontano la dimensione sociale. I parchi costituiscono i luoghi comuni (o i luoghi idealizzati) della diversità culturale.
MBC: È bella l'immagine del mare verticale: mi viene in mente l'ultimo video Giudecca, Le ore blu, sull'acqua in relazione al tempo e alla luce. Per quanto riguarda Il parco, in effetti mi interessava l'abitare lo spazio pubblico — il terreno verde all'interno del perimetro della città (diverse metropoli soprattutto europee) — e il rapporto privato/ pubblico, dentro/fuori, così come l'incontro possibile tra diversità o l'esperienza di ritrovamento — della lingua, della musica, dei riti propri dell'origine. Quella specie di forma di eterotopia.
Ho adottato un tipo di ripresa ad altezza di bambino di tre/quattro anni con l'intento di decentrare, di escludere la gerarchia nella visione e aprirsi invece all'imprevisto, all'incerto e al provvisorio. Si tratta di un insieme di campi percettivi di esperienze e non un insieme di inquadrature intenzionali e distanti simili alla veduta.
Anche i video Agente apri e Frammenti di una notte sono dichiaratamente lavori che riguardano il sociale — il carcere e ancor più i bambini e il rapporto con l'ambiente carcerario e l'altra istituzione: l'ospedale. Anche qui però, come in tutti i lavori precedenti, c'è uno stesso interesse relativo al linguaggio fotografico, la modalità di ripresa utilizzata e il rapporto con lo spazio e la luce.
JFC: Le immagini dei parchi aprono una nuova dimensione dello spazio esterno, che si ritrova in L'alba e le immagini dei campi di rovine in Grecia. Abbiamo introdotto delle montagne gli estratti di un insieme di opere precedenti, immagini del delta del Po, un territorio intriso di una forte aura mitologica per la storia italiana.
MBC: Rivedendo la mostra e il catalogo nel loro farsi, mi rendo conto che lavori così lontani negli anni hanno molti punti in comune. Le fotografie del delta del Po sono importanti per me perché lì è già chiaro quello che sarà centrale nel mio modo di concepire la fotografia. La neutralità — il qualsiasi — non riguarda solo l'oggetto scelto ma anche il modo di presentarlo, senza alcun effetto, solo con la luce diffusa. Così anche nelle rovine della Grecia la luce è quella del mattino o del crepuscolo, la luce senza ombre. Mi vengono in mente certe fotografie di Gustave Le Secq che danno l'idea della terra che diventa corpo con una resa senza alcun effetto o contrasto... Ne L'alba questo elemento relativo alla luce è ancora più forte: la piazza, il rapporto tra il terreno, il cielo e la parete del duomo. Qui è la macchina fissa con la luce che cambia impercettibilmente dalla notte al giorno, il sorgere della luce: il risveglio.
JFC:Le immagini del Peloponneso nascono dal camminare senza meta tra le antiche rovine. Come nelle vedute del Po, la terra incontra l'acqua e il cielo nella luce dello spazio all'aria aperta. Ritroviamo l'immagine del litorale.
Ma una tonalità elegiaca trasforma la posizione di neutralità che hai appena ricordato. D'altro canto, appare sempre più chiaramente che l'aria aperta (plein air) è molto più che una realtà atmosferica; è un sogno di libertà, di mobilità, il sogno di un mondo continuo e aperto, senza frontiere.
L'alba descrive la scena di un miracolo quotidiano, profano (a cui il Duomo serve da sfondo). Come i corpi sdraiati nel parco sono certamente vivi, i parchi non sono una decorazione "metafisica" (alla De Chirico); le rovine del Peloponneso respirano nella luce. l'acqua blu del canale della Giudecca è la materia ideale per un campo di colore poiché la superficie occupa lateralmente l'inquadratura da parte a parte nella cornice. Il blu intenso, screziato, è un concentrato di materia lirica (l'immagine supporta perfettamente il piccolo formato, non ha bisogno di essere ingrandita). Tuttavia, una piccola striscia di terra lungo il bordo superiore ricorda il contesto urbano. Questo rimando è essenziale perché rievoca alla mobilità dei piani in Con la coda dell'occhio. La visione periferica gioca al contempo rispetto all'estensione laterale la superficie dellìacqua (o campo di colore) e nella lontananza, in un lontano vicino, dietro il piano dell'acqua, dove appare l'altro, quello di fronte. Lo sguardo può, quindi, superare il canale. Lo sguardo cammina sull'acqua.
Testo scritto per il catalogo Au bord de la vue. Linee biografiche, a cura di Jean-François Chevrier, testo di Emma Zanella e Alessandro Castiglioni e dialogo tra Marina Ballo Charmet e Jean-François Chevrier), Danilo Montanari Editore, Ravenna
Mostra: Marina Ballo Charmet Au bord de la vue. Linee biografiche a cura di Jean François Chevrier con la collaborazione di Èlia Pijollet, MAGA, Gallarate 14 ottobre 2018 - 6 gennaio 2019