Il limite

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1992

Claudio Marra

Associazione Culturale Italo Francese, Bologna, Bari

italiano

Il limite

Una vecchia e non collaudata teoria, per altro non priva di un'apprezzabile sensatezza di fondo e comunque ricca di pregevoli suggerimenti critici, tendeva a voler dimostrare l’artisticità della fotografia e del cinema a partire dal concetto di “riduzione”. Ne fu particolare sostenitore e divulgatore, agli inizi degli anni trenta, Rudolf Arnheim con una serie di studi più tardi raccolti nel notissimo Film come arte. In quei saggi Arnheim, volendo rispondere a quanti negavano un riconoscimento estetico alla fotografia e al cinema perché accusati di replicare meccanicamente il mondo, e dunque incapaci di dar luogo a quelle trasformazioni del reale che in qualche modo dovrebbero caratterizzare l’opera d’arte, s’impegnava con accanimento e minuziosità a dimostrare come in effetti l’immagine fotografico-filmica non potesse essere considerata una banale replica speculare della realtà poiché, rispetto a questa, essa procedeva appunto per “riduzione”, a causa delle limitazioni dell’occhio tecnologico rispetto a quello naturale.

Ora ad un primo e sbrigativo sguardo, anche il lavoro di Marina Ballo sembrerebbe rientrare alla perfezione in questa prospettiva. Lontano c’è la scelta classica del bianco e nero (così caro ad Arnheim ) che riduce drasticamente la cromaticità del mondo, poi il modo di avvicinarsi fotograficamente al paesaggio con scelte che si potrebbero giustamente definire minimaliste: l’obiettivo che sfronda e ritaglia generosamente rispetto al contesto (si veda ad esempio la bella sequenza del recinto con filo spinato), o che al contrario quando si allarga su grandi respiri (è il caso delle spiagge della Bretagna) indietreggia talmente da rendere evanescenti cose e persone, e poi ancora la scelta dei toni, il più delle volte risolti in una misurata "chiave alta" così da azzerare una referenzialità troppo minuta e dettagliata. lnsomma non c’è dubbio che cosi, ad un primo sguardo appunto, il lavoro della Ballo sembrerebbe proprio rispondere totalmente ai migliori requisiti di un’estetica della riduzione.

Tutto bene allora e tutto risolto se non fesse che a prolungarlo anche solo un attimo questo sguardo, prende subito a farsi strada il dubbio che così procedendo anche il giudizio si farebbe ridotto e riduttivo, perché pungente, intrigante e suggestiva, tende presto ad emergere l’ipotesi diametralmente opposta, e che cioè il lavoro della Ballo in effetti non proceda per riduzioni, ma al contrario per ampliamenti e dilatazioni. Non del reale ovviamente, perché talune scelte che prima si sono indicate non possono certo venir negate, ad essere dilatate saranno allora l’atmosfera e l’aura che il reale contiene, come dire, il senso di un posto e di un luogo, l’affettività profonda di un paesaggio, una dimensione interiore che, opportunamente, viene colta e ingigantita. Magari, ed è forse giusto farlo, si potrebbe anche ammettere che le due scelte, riduzione e ampliamento, non sono antitetiche ma anzi complementari e che è proprio attraverso una semplificazione della fenomenicità che meglio può emergere la noumenicità. Certe, questo è giusto, ciò che però ci premeva in ogni caso sottolineare, è che la riduzione del reale operata da Marina Ballo, non sfocia mai, come balordamente ci ha reso consueto tanta fotografia di questi ultimi anni, in un’operazione asetticamente formale, le terre e le acque non sono per lei solo macchie da comporre sintatticamente sulla carta e gli orizzonti mai si trasformano semplicemente in linee, perché tali continuano ad essere, limiti di pensiero profondo, limiti emozionali e non freddamente formali. In altri termini, concependo il paesaggio stesso come invitante groviglio di segni su cui operare, dovremmo dire che oggetto del discorso, e dunque dell’ampliamento e della dilatazione, non sono i significanti ma i significati, non gli elementi materiali che pur tornano nell’immagine, ma ciò che essi evocano.

Due segreti della fotografia ci pare siano stati allora colti felicemente dalla Ballo. Il primo corrisponde alla consapevolezza che solo apparentemente (o solo nei casi peggiori, purtroppo) si fotografano le cose. Non le cose ma ciò che esse emanano, perché lo specchio che con la fotografia abbiamo a disposizione è in effetti assai anomalo e sorprendente nei risultati, tanto che se ben interpretato sa rendersi veramente attraversabile innescando quella particolarissima magia che è propria dell’immaginario quando si fa visibile e concreto. E l’immaginario fotografico fa espressamente leva su questa caratteristica, quella di giacere ambiguamente sulla realisticità di ciò che ne propone, si allarga e fugge come può accadere con le parole o la pittura, ma poi imperiosamente torna indietro, si fa concreto, credibile, ci sta maliziosamente davanti invitandoci a farne materialmente parte.

Altro segreto ben colto da Marina Ballo ci pare invece sia quello che costruttivamente pone la fotografia come disposta in modo equilibrato su un prima e un dopo. Il prima riguarda l’agire dell’operatore stesso che evidentemente chiede all'obiettivo di poter avvicinare le cose in maniera “diversa", fisicamente diversa, così da compiere una sorta di effettiva performance alla ricerca del senso. Attraversare fotograficamente la Bretagna o il delta del Po, come è accaduto a Marina Ballo, significa proprio questo, bisogna materialmente esserci, e l’occhio meccanico, in lei, sembra essersi perfettamente naturalizzato e sensorialmente integrato alla sua persona. Non è un pennello distaccato con cui ricostruire i paesaggi, ma una parte di sé che vuol calarsi emozionalmente nelle cose e non può accontentarsi di ciò che superficialmente appare. Il dopo riguarda la fruizione, che per l’insieme di quanto fin qui detto, tale in effetti è e non semplice visione. Marina Ballo riesce così a regalarci il gusto di appartenere noi stessi ai suoi paesaggi, non ci lascia, pur incantati, davanti alle cose, ma restituendocele nel loro più autentico livello di senso ci permette appunto di fruirle, o di riviverle e non solo ci vederle.

C. Marra, Il limite, Associazione Culturale Italo Francese, Bologna, Bari, 1992

/ english

Il limite

An old and well-proved theory, not without an appreciable, sound sense and in any case richly endowed with admirable critical hints, sought to demonstrate the artistic quality of photography and cinema through the concept of "reduction". One particolar advocate and popularizer of that theory was, in the early 1930s, Rudolf Arnheim, whose studies were later collected in the famous FiIm as art. In his essays Arnheim intended to answer all those who denied aesthetlc recognition to photography and films on the grounds that they mechanically copied the world, and therefore laked the capacily to transtorm realty which ought to distinguish a work of art. He doggedly and scrupulously set about the task of proving that photographic and film images could not be considered a mere specular copy of reality. Because, compared to that reality, they did indeed work by a process of “reduction”, due to the limitations of the technological eye compared to the human eye.

Now at a first quick glance, the work of Marina Ballo might likewise seem perfectly to fit into the perspective. To begin with , there is her classic choice of black and white (so dear to Arnheim) with its drastic reduction of the world's colour: and then the actual way she approaches landscape photographically, from an angle that could rightly be called minimalist: the lens stripping superfluities and generously cutting out context (see for example the fine barbed-wire fence sequence): or conversely, widening to embrace broader scenes (as in the beaches of Brittany) and stepping back so far that things and people are rendered evanescent. Then again, there is her choice of tones, for the most part in a measured "high key", erasing any overdetailed references. So as I said, there is no doubt that in this way, at a casual glance, Ballo's work would seem precisely to comply totally to the besl requisites of a reductionist aesthetic.

So it might seem. Were it not for the fact that after looking even as little as a second longer, one immediately begins to doubt that in this way even one's own judgement would be reduced and reductive. Because, with pungent, intriguing and compelling force, the diametrically opposite view soon lends to emerge, namely that Ballo's work in effect does not proceed by reductions but, on the contrary by enlargements and dilations. Not of reality, of course, because a number of approaches indicated earlier cannot be denied. And so it is the atmosphere and aura of reality that will be dilated: the sense, as it were, of a place; the deep inner affectivenes of a landscape, an inward dimension appropriately captured and blown up to giant size. Perhaps, and maybe rightly, it could be admitted that the two choices ~ reduction and enlarqement - are not antithetic but indeed complementary, and that it is precisely through a simplified phenomenalism that the

noumenicity can best emerge. Certainly, this is true. What we wanted in any case to emphasize however, is that Marina Ballo's reduction of reality never ends up, like the familiar silliness of so much photography in recent years, as an aseptically formal operation . Land and water for her are not just marks to be syntactically composed on paper; and horizons are never simply transformed into lines, because they continue to be horizons, as the limits of profound thought, emotional and not coldly formal limits. In other words, in conceiving landscape itself as an inviting tangle of signs to work on, we ought to say thal the object of the exercise, and hence of the enlargement and dilatation, is not the signifying but the signified, not the material elements even though they may return to the image, but what they evoke.

Two secrets of photography, we feel, have been successfully grasped by Ballo. The first is the awareness that only apparently (or only in the worst cases, unfortunately) are things photographed.

Not things, but what they emanate, since the mirror at our disposal through photography is in effect highly anomalous and surprising in its results. Indeed, if well interpreted, it can even make itself truly practicable by kindling the peculiar magic that surrounds the imaginary when it is made visible and concrete. And the photographic imaginary expressly acts on this characteristic, playing ambiguously on the realistic aspect of what it proposes,

widening and escaping as can happen with words or paint. But then it imperiously comes back, turning substantial and credible, appearing mischievously and inviting us to be materially part of it.

The other secret well understood by Marina Ballo in our opinion is that of presenting photography as arranged in a balanced way on a before and an after. The first concerns the action of the photographer herself, who clearly asks the lens to approach things in a "dilfferent", physically different, way: so as to conduct a sort of effective "performance" in search of sense. To travel photographicalIy through Brittany or the Po delta, as Marina Ballo did, means just this. You nave to be materially there, and the mechanical eye seems to have been perfectly naturalized and sensoriale integrated into her person, It is not a detached brush used to reconstruct landscapes, but a part of herself thant intends to be emotionally steeped in things and cannot be content with superficial appearances. The "after" concerns fruitions which, because of everythlng we have said here, is indeed fruition and not just vision. Marina Ballo thus gives us the pleasure of feeling that we ourselves belong to her landscape. She does not leave us albeit enchanted, in front of things. But by conveying them to us i their most geniune sense, she enables us precisely to enioy them, to re-experience and not just to see them.

(Translation by Rodney Stringer)

C. Marra, Il limite, Associazione Culturale Italo Francese, Bologna, Bari, 1992