Stefano Chiodi: Quando hai iniziato a usare la fotografia?
Marina Ballo Charmet: Direi a metà anni Ottanta; stavo facendo l’analisi personale per la mia formazione di psicoterapeuta. A un certo punto mi è venuta voglia di usare la macchina fotografica: attraverso l’obiettivo le cose prendevano un senso diverso.
Ti interessavi già all’arte in quel momento?
Non mi sono avvicinata alla fotografia con l’idea di fare l’artista, anzi era l’ultima cosa che volevo, ero cresciuta in mezzo agli artisti ma sono andata da tutt’altra parte, ho studiato filosofia, poi psicoanalisi... Direi che è venuta fuori come passione per la realtà.
In che senso?
La fotografia permette di vedere le cose come se fosse la prima volta, realizza una sorta di “riparazione”, come dicono gli psicoanalisti. E ha anche un aspetto magico, è un riferimento allo stato delle cose che rimanda a uno stato del sé.
Hai pensato da subito la fotografia come il centro della tua ricerca?
Sì, ma non come lavoro, direi più come passione per un mezzo che permette di vedere certi aspetti della realtà; forse stava succedendo anche qualcosa dentro di me durante l’analisi.
Tuo padre era un famoso critico d’arte, sostenitore dell’astrattismo e di molti artisti, da Lucio Fontana a Gianni Colombo e molti altri. Cosa ha significato crescere in un ambiente di quel genere?
È stato certo molto importante, soprattutto perché mi ha trasmesso l’interesse per la rottura degli schemi, per le componenti più trasgressive e politiche dell’arte, insieme a un ideale antiespressivo e all’attrazione per forme e linguaggi oggettivi, neutrali. Quanto alla fotografia, a mio padre interessava solo quella delle avanguardie di inizio secolo; Aldo Ballo, suo fratello, era invece un importante fotografo di design ed è stato il primo a incoraggiarmi.
Quali esperienze hanno contato di più nel tuo periodo giovanile?
La politica e il femminismo, senz’altro, ero vicina a Lotta continua. E poi la filosofia, avevo frequentato all’università le lezioni di Enzo Paci sulla fenomenologia, Husserl, Sartre, Merleau-Ponty, e mi interessava il pensiero antiautoritario di Marcuse, Laing, Cooper e della scuola di Francoforte. Un’altra esperienza importante di quei primi anni settanta è stata la frequentazione del gruppo legato a “L’erba voglio” di Elvio Fachinelli e dei gruppi di lavoro su psicoterapia e marxismo tenuti da Enzo Morpurgo. E ancora il cinema d’avanguardia, frequentavo il Club Nuovo Teatro animato da Franco Quadri dove si vedevano film di Stan Brakhage, Michael Snow, Andy Warhol...
Hai spesso parlato dei seminari con Gabriele Basilico e Lewis Baltz che hai frequentato nel 1989-90 come esperienze importanti.
Sì, entrambe. Nel caso di Basilico, un giorno, sarà stato il 1987, vedo in un paese dell’Umbria un manifesto con alcune sue foto del lago Trasimeno. Erano immagini prive di aspetti drammatici, con un clima sospeso che era molto vicino a quel che andavo cercando in quel periodo. Due anni dopo ho deciso di partecipare a un suo seminario a Milano e quella è stata la mia prima, fondamentale esperienza di rispecchiamento. Baltz mi ha aiutata a chiarire ciò che avevo in mente e a confermare la mia vocazione, dandole una convalida dall’esterno.
Baltz e Basilico sono stati in qualche modo tuoi modelli?
Direi di no. Sono stati dei punti di riferimento, non dei modelli. In generale del loro lavoro mi ha interessato meno l’aspetto di documentazione e molto di più l’elemento perturbante, qualcosa che va al di là della realtà che ritraggono. Per il mio lavoro di allora ci sono anche altri riferimenti, ad esempio Bernd e Hilla Becher e Robert Adams.
Avevi dei punti di riferimento, dei compagni di strada in quei primi anni?
Certamente i critici Paolo Costantini e Roberta Valtorta. Costantini mi aveva fatto scoprire i fotografi di New Topographics, e mi ha poi invitato nel ’96 a collaborare al progetto Venezia-Marghera, mentre con Valtorta, che aveva creato a Milano l’Archivio dello spazio, un luogo di discussione e produzione, ho avuto un continuo e importante confronto sul lavoro: con lei ho fatto i primi libri. Importante è stato anche Linea di confine, un laboratorio pensato da Costantini e poi animato da Guido Guidi e William Guerrieri. E poi naturalmente Jean-François Chevrier, con cui negli anni si è sviluppato un dialogo e una collaborazione per me estremamente feconda.
Anche prima del tuo esordio in fotografia avevi realizzato alcuni video.
Sì, nei primi anni Ottanta ho girato dei video di documentazione in 3/4 di pollice che avevano come soggetto l’inserimento all’asilo di alcuni bambini. Erano video di circa un’ora realizzati per il Centro Innovazione Educativa del Comune di Milano e destinati alla formazione degli educatori. Il documento visivo consentiva di riflettere sulle esperienze dei bambini e delle madri nel momento critico della separazione, e offriva così agli educatori un’occasione per entrare in relazione con esperienze reali.
Mi sembra ci siano delle analogie tra questi lavori e un video come Stazione eretta, dove il bambino torna come soggetto, come corpo e anche come punto di vista sul mondo. È così?
Forse sì, ma indirettamente, perché nei primi video predominava l’elemento documentario e in quelli più recenti l’aspetto concettuale prende il sopravvento. Certamente l’identificazione con lo sguardo del bambino è un tema che mi sono portata dentro a lungo, è uno sguardo che contiene il caso, che è ancora privo di codice, di regole, di conformismo.
È anche lo sguardo dell’artista? E in particolare lo sguardo di un’artista donna che critica i modelli visivi dominanti?
Penso di sì. Nella fotografia ciò che mi interessa non è la messa a distanza, il punto di vista elevato, razionale, ma l’essere-nel-luogo, dove l’elemento del controllo si allenta, entra in crisi.
In effetti, una costante del tuo lavoro è l’attenzione ai margini della percezione, a ciò che di norma rimane sotto la soglia del visibile. La visione “periferica o distratta” come l’hai definita in un tuo testo. Quando hai cominciato a usare la fotografia in questo modo e come si è verificato questo passaggio?
Direi già con la mia prima serie, Il limite. Sono immagini “bianche” in cui c’è una fusione tra cielo, mare e terra, un “non limite”. Ho capito che non mi interessava la definizione dell’oggetto-luogo, l’osservazione dei dettagli più minuti, ma essere dentro il luogo, dare il senso dell’esperienza, dell’esserci. In altre parole, la fotografia non mi interessa come descrizione minuziosa ma come esperienza, come rapporto empatico con cui si manifesta il senso di un luogo.
Questo effetto è amplificato dal procedimento di stampa?
Direi di no. Per fotografare scelgo di solito il mattino o la sera perché mi interessa la luce senza ombre, il contrasto basso. L’idea non è dare una descrizione minuziosa ma rendere visibile un’esperienza, realizzare immagini “mitiche”, archetipiche: le spiagge dove acqua, cielo e terra rimandano all’idea di non separazione, di indistinzione originaria degli elementi. Ricordo che Roberta Valtorta, alla quale avevo mostrato Il limite, le aveva definite immagini che stanno per apparire o scomparire...
Sono cioè vestigia oppure, al contrario, embrioni di immagini?
Sono immagini che si posizionano appena prima della coscienza, della percezione definita, ricordano ciò che vediamo con gli occhi socchiusi. Stanno al confine tra proiezione mentale e percezione.
Con la coda dell’occhio, a inizio anni Novanta, è il progetto con cui la tua fotografia giunge a piena maturità. Come è nata la serie?
Nel 1992 ero stata invitata al festival di Graz a fare un lavoro sulla città; ho iniziato allora a mettere l’obiettivo all’altezza dell’occhio di un bambino di tre o quattro anni e a riprendere da quel punto di vista il tessuto urbano, in particolare marciapiedi, spartitraffico, sterrati, ecc. Uscivo al mattino presto o al crepuscolo per sfruttare la luce diffusa, senza ombre, e pur usando il cavalletto, l’inquadratura nasceva sempre da un rapporto empatico col luogo, da una esigenza preconscia, non da una intenzione razionale. L’importante era che il luogo si presentasse da sé, nella sua neutralità.
La ricerca di neutralità e l’empatia non si elidono a vicenda?
No. Io divento come una carta assorbente che trasmette la presenza neutra delle cose. L’importante per me è che la realtà si presenti nella sua nuda oggettività.
Avevi in mente dei precedenti? Delle immagini che riemergevano mentre realizzavi la serie?
Non avevo modelli o riferimenti particolari. Avevo visto tanti anni prima La Région centrale di Michael Snow, ad esempio, dove la presenza della terra invade lo schermo, e il rapporto tra terra, cielo, luce è visto attraverso un occhio-macchina. Oppure certe fotografie di Le Secq, di Atget, di O’Sullivan, immagini straordinarie, prive di artifici, dove la natura diventa un grande corpo senza centro. Sono fotografie in cui sembra non esserci nulla: la macchina fotografica scompare e resta soltanto l’occhio.
Potremmo dire che in Con la coda dell’occhio si affermi nel tuo lavoro un nuovo genere di sguardo?
In parte sì e in parte no. Già in precedenza avevo lavorato sul margine, sull’ambiguo. Le novità in questa serie sono il punto di vista ribassato e il fuori fuoco. La cosa importante era avvicinarmi all’oggetto in modo intuitivo, senza cioè l’intenzione di osservarlo attentamente o di descriverlo. Mi interessava invece restituire un’immagine mentale, andare verso l’inarticolato. In altre parole, mettere al centro e rendere monumentale ciò che sta al margine della nostra percezione cosciente. E in fondo è un paradosso che questo oggetto neutro fuoriesca proprio dalla relazione empatica e dal preconscio.
Citi spesso proprio a questo riguardo due autori che hanno riflettuto sul processo creativo e l’immagine, Anton Ehrenzweig e Salomon Resnik.
Sì, vedendo il mio lavoro, Piero Quaglino, un amico storico dell’arte, mi suggerì di leggere quel che ha scritto Ehrenzweig sulla “visione periferica”, su ciò che sta sul margine della coscienza, che viene percepito debolmente, “avvertito” più che “visto”. Resnik insiste invece su un tipo di conoscenza “distratta”, legata al preconscio, simile a quella della prima infanzia, ancora immune dall’influenza della cultura dominante. Il divagare della percezione diventa così una modalità conoscitiva e creativa, più ricca di quella consapevole, una forma di cui la cultura deve tener conto.
In questa attenzione al non intenzionale, all’informe, c’è una convergenza imprevista tra psicoanalisi e fotografia?
Il tema centrale è lo scarto, e questo c’entra molto con il lapsus, in fondo quelle che fotografo sono le parti rimosse della città, e si potrebbe paragonare il mio lavoro a quello dello psicoterapeuta: l’aspetto centrale non è il più importante, si deve osservare il margine, lasciar fluttuare la mente e ascoltare il paziente. E questo non è molto diverso da quel che succede nel processo creativo quando fai il vuoto nella mente, la lasci vagare e ti metti in contatto con l’esterno senza un controllo razionale, con un’attenzione fluttuante, che non deve essere controllata.
La fotografia, con la sua natura di “indice”, di impronta del visibile, non è però l’antitesi di questi stati fluttuanti tra coscienza, inconscio, percezione? Non è comunque sempre un “ritaglio” intenzionale?
Certamente la fotografia può procedere nella strada della definizione, dell’apparente razionalità, e può anche scadere nell’estetizzazione del visibile. Ricordo però una foto di Robert Adams, una roccia in controluce e sul fondo un terreno in declivio, dove non c’è nessun soggetto particolare, nessun effetto. Il paesaggio in questo caso si presenta come la visualizzazione di un rapporto fenomenologico: più che frutto del guardare, l’immagine si offre come la possibilità di vivere un’esperienza, di abolire la messa a distanza propria della fotografia. Mi sembra più interessante recuperare l’idea di “distrazione”, l’attenzione fluttuante, il vagare dello sguardo.
Parliamo allora più in dettaglio delle immagini che compongono Con la coda dell’occhio. Se il soggetto dichiarato è la città contemporanea, il tuo modo di riprenderla è inatteso, laterale. Ti concentri sulle zone di passaggio, sull’anonimato delle superfici di cemento o asfalto, insomma su tutto ciò che sta sotto la soglia del descrivibile...
È una perlustrazione del bordo emaciato della città, riprendevo soprattutto zone-limite, marginali, non interessanti, magari in pieno centro. Una periferia relativa, esplorata ad altezza di bambino.
Jean-François Chevrier ha parlato in proposito di “sguardo del cane”. Ti piace questa definizione?
Io avrei detto sguardo del bambino piccolo, ma capisco cosa intende Chevrier, che nel suo testo riprende la critica di Raoul Hausmann alla visione antropocentrica, alla tradizione che associa la visione alla stazione eretta, e dunque alla perdita di potere che l’abbassamento del punto di vista comporta.
Fatte le ovvie distinzioni, leggi questo “abbassamento” come critica alla visualità modernista, al primato dell’occhio sugli altri sensi, così come il gesto di Pollock di colare il pigmento sulla tela appoggiata a terra inaugura un diverso modo di concepire l’immagine pittorica in Occidente?
Come critica al pensiero razionale, cosciente. Ho sempre pensato la mia fotografia in modo tattile, nel senso in cui lo intendeva Merleau-Ponty: per vedere bisogna porsi come un cieco con il bastone che entra in contatto con le cose.
Cosa vuol dire, cosa implica dunque “abbassare” il punto di vista?
Indica una prossimità e insieme il ribaltamento della posizione verticale. Guardare dall’alto equivale sempre a tenere sotto controllo. Per entrare nel luogo, per creare un rapporto empatico, è necessario invece avvicinarsi alla terra, alla dimensione orizzontale che ci contiene, e abbandonare l’idea di poter controllare tutto.
Trovo un’assonanza tra le forme primitive, ruvide, dissociate di Con la coda dell’occhio e certi esperimenti post-minimalisti sullo scenario urbano, ad esempio Reality Properties: Fake Estates di Gordon Matta-Clark, che gioca sugli spazi interstiziali della città, terreni ormai privi di valore acquistati e fotografati.
Il lavoro di Matta-Clark mi ha sempre attratto per l’indifferenza delle scelte e anche per la forza poetica di questo recupero dell’inutile, del non funzionale. Ma ci sono anche altri artisti di quel periodo che mi interessano, Donald Judd, ad esempio, con le sue forme elementari, seriali, la sua riduzione della scultura a una semplicità scarna, archetipica, senza romanticismo.
In un’altra tua serie, Rumore di fondo, appaiono tre diverse tipologie di oggetti: facciate di edifici modernisti, interni di appartamenti e “pieghe” di indumenti. Che rapporto c’è tra questi elementi?
Volevo dare l’idea di una percezione che vaga, che si muove alla periferia delle cose. Sui dettagli di interni invariabilmente “cade l’occhio”, sono parte del nostro quotidiano. Fuori da questo contesto, diventano presenze scultoree. Nelle pieghe molto ingrandite volevo rendere la vicinanza dello sguardo, della prossimità con l’altro. Nelle facciate c’è un ribaltamento: i piani verticali sono appiattiti, diventano orizzontali, senza nessuna manipolazione tecnica. Sono proprio dei fermo-immagine del nostro vivere e camminare nella città.
In Primo campo, grandi stampe a colori presentano invece dettagli di volti estremamente ravvicinati. È certamente uno dei tuoi lavori più potenti e suggestivi. Come è nato?
L’idea di partenza è il punto di vista di un bambino molto piccolo in braccio a una persona familiare. Ma non si tratta di un esperimento. Le fotografie di Primo campo suggeriscono un’intimità, una vicinanza tattile e olfattiva. Il pezzo di volto, il collo, ciò che sta tra l’occhio e il petto, è ciò che si vede quando si sta molto vicini a qualcuno, è ciò che possiamo avere dell’altro.
Vuoi dire che a distanza ravvicinata si perde la percezione dell’identità dell’altro?
Secondo Resnik il campo visivo del bambino diventerebbe uno specchio, una mescolanza tra il corpo dell’altro, o il volto della figura familiare, e la proiezione del corpo del bambino. D’altro canto, dal mio punto di vista, la vicinanza esclude la totalità, fa emergere l’amorfo e il mostruoso, e il fuori fuoco rende bene il vagare della percezione. Mi interessa rendere l’intuizione di una presenza.
In effetti sono immagini estremamente perturbanti, mute, anonime. C’è qualcosa che mi ricorda la poetica dell’informe di radice surrealista. È così per te?
Direi di no. Certamente quelle di Primo campo sono immagini perturbanti, ma ho cercato soprattutto di rendere il movimento della percezione nel rapporto con l’altro; non sono ritratti classici, sono esplorazioni per frammenti che restituiscono il nostro modo di vedere tattilmente, da vicino, il corpo dell’altro.
In diversi tuoi lavori emerge un legame diretto con la temporalità, il ritmo giorno-notte, la durata. Che ruolo in genere ha il tempo nel tuo lavoro?
Ti faccio l’esempio dei video della serie Disattenzioni. Lì il soggetto è la luce mescolata al tempo, una luce che appare e scompare. Siamo sempre in un interno, il mio studio. Ancora una volta riprendo un fenomeno minimo, ma qui c’è anche l’evocazione indiretta dell’ambiente esterno, il movimento del sole. In Frammenti di una notte questa durata temporale prende un significato diverso: le tracce luminose sono l’indicatore del ritmo dell’ospedale, ma anche il segno della dipendenza del paziente, del suo attendere, del ritrovarsi soli. La notte interminabile dell’istituzione totale.
Si potrebbe dire che in un certo senso il tempo appartiene al corpo?
Nei miei video il tempo ha sempre un valore esistenziale, riguarda un soggetto e la relazione tra dentro e fuori.
Dalla dimensione dell’intimità allo spazio pubblico è il salto che hai compiuto con la serie Il parco. Che genere di luogo è questo, e come diventa un soggetto da fotografare?
Il parco è un contenitore di esperienze, di possibilità che altrove non sono possibili, come l’incontro tra comunità, tra individui di origini diverse. È una scoperta che ho fatto al Parco Sempione a Milano, un luogo della mia infanzia che ho visto trasformarsi in un luogo utopico, in una eterotopia, per dirla con Foucault. Ho fotografato i parchi all’interno di città europee e americane, ognuno con le sue caratteristiche, la sua densità particolare, le diverse forme di “privato” che appaiono nello spazio pubblico.
In questa serie hai ancora una volta adottato un punto di vista ribassato e il fuori fuoco.
Sì, l’intenzione era escludere la centralità, la gerarchia. Non volevo riprendere una scena, ma registrare gli aspetti imprevisti, provvisori, di volta in volta diversi, rendere l’idea di star seduti e guardarsi intorno, senza privilegiare nulla in particolare. Ciò che appare è un campo percettivo, di esperienza, non un’inquadratura intenzionale, quasi che la macchina fotografica lavorasse da sola, scattando immagini di ciò che si trova intorno. E questo è ciò che chiamo registrare, presentare.
Il parco va immaginato come uno spazio, un modello di convivenza possibile?
Potrebbe esserlo. Senza idealizzare troppo, di sicuro i problemi non si annullano magicamente. Ma osservare un parco urbano vuol dire conoscere da vicino le diverse modalità di abitare la città: il parco può essere un contenitore pacifico di differenze, uno spazio pubblico che se lasciato vivere, come dice Bauman, può diventare esperienza di convivenza e di riduzione della distanza. Certamente è un osservatorio interessante, ma la componente politica non è il centro. Nelle fotografie il punto essenziale è l’imprevisto e la testimonianza di un’esperienza nel suo farsi, il divagare del pensiero e dell’occhio.
A Madrid presenti tre lavori recenti, le fotografie e i video di Le ore blu. Giudecca e Centotrentuno minuti di cielo e il video L’alba. Sono tutte meditazioni sul tempo?
Soprattutto sulla luce. In Le ore blu. Giudecca, ho ripreso il momento di passaggio dal giorno alla notte e viceversa. Le ore blu sono quei momenti di sospensione, al mattino, appena prima del risveglio dei suoni della natura e degli animali, e alla sera, dopo il crepuscolo, resi attraverso il movimento dei riflessi sull’acqua, un fenomeno che abitualmente non osserviamo. In L’alba ho messo invece la videocamera di fronte alla facciata del Duomo di Milano e ho ripreso per cinquanta minuti il passaggio dalla notte al giorno. Il passaggio della luce è fluido così come lo stato delle cose nella piazza. È il risveglio della città che torna a vivere dopo i silenzi e il buio della notte. In Centotrentuno minuti di cielo ho lavorato nel momento del passaggio dalla notte al giorno. Ho realizzato le riprese sia video che fotografiche nell’autunno del 2018, in una cascina vicino Milano che era stata la residenza di Petrarca, in quel breve tempo, al mattino, in cui la luce del giorno fa sparire le stelle dal cielo. Ancora una volta il qualsiasi, il semprevisto. In questo caso il cielo stellato che trascolora, ripreso con macchina fissa, come a occhio nudo. Quello che vediamo sempre ma non ci fermiamo a guardare e a “sentire”: un’esperienza di silenzio.
Si potrebbe dire, in conclusione, che nella tua pratica la fotografia acquista un ruolo diverso da quello di testimonianza del “già stato”, che ci mostra l’indeterminatezza, la mobilità dei processi mentali e affettivi che sorreggono la nostra relazione con la realtà?
Far pensare è sempre stato un obiettivo centrale dei miei lavori. Le fotografie non devono dare risposte ma aprire e porre domande, mostrare qualcosa del nostro essere quotidiano, del nostro abitare, qualcosa che ci appartiene e che è anche una ricerca sulla nostra mobilità percettiva ed esperienziale. Non sono solo testimonianza.
[Questa conversazione è stata realizzata tra il 2013 e il 2019]
Testo dal catalogo: Marina Ballo Charmet. Fuori campo, a cura di Stefano Chiodi, testi di Laura Pugno, Stefano Chiodi, Andrea Cortellessa, Marina Ballo Charmet, Istituto Italiano di Cultura, Madrid
Per la mostra: Marina Ballo Charmet. Fuori campo, a cura di Stefano Chiodi, Istituto Italiano di cultura, Madrid, 18 ottobre- 20 dicembre 2019