MARCO MENEGUZZO: In questi giorni, casualmente o per un suggerimento subliminale, ho rivisto su una piattaforma televisiva il film di Jean Luc Godard Le livre d’images, premiato a Cannes nel 2018. Devo dirti che quel suo uso del colore e il modo in cui tratta le immagini mi ha ricordato molto da vicino le tue nuove fotografie. C’è, tra l’altro, un’aria molto francese – in lui, ovviamente – per cui l’immagine è sempre ammantata di una specie di supporto filosofico: l’uso distopico delle parole e delle figure, e poi il colore che brucia l’immagine tanto è sovraesposto e trattato digitalmente è qualcosa che hai adottato anche tu – il colore, non ancora le parole, anche se nei tuoi video... –, e vorrei sapere perché.
MARINA BALLO CHARMET: Un colore molto forte. Volevo dei colori vivissimi e abbaglianti. È un po’ di tempo che pensavo a questa tematica, a questa idea del padre e
della relazione con il piccolo e alla fine ho deciso di fare delle immagini che avessero una grande forza visiva, e che diventassero in qualche modo come delle icone. Da un lato c’è la pubblicità dall’altro c’è la fotografia di famiglia e ho cercato immagini di amici e non solo, di padri coi bambini. È stato un percorso lungo e a un certo punto ho anche pensato di dipingere sopra le fotografie, ma poi ho deciso di stare nel mio e ho scelto di non usare la pittura ma solo la fotografia, andando ad approfondire i colori. In questo percorso mi è venuto in mente di andare a rivedere l’uso del colore di Godard, i primi film ma soprattutto gli ultimi due Adieu au langage (2014) e Le livre d’image (2018). Li avevo visti a Parigi e mi avevano molto colpito perché la sovraesposizione era proprio uno sfaldamento, e anche il colore intensissimo che Godard usa in questi ultimi lavori e la luce. Ho pensato che quello che cercavo era una cosa simile anche se nel film c’era il movimento ed era un’altra cosa. Effettivamente
era importante per me cercare l’intensità del colore e la sovraesposizione e ho visto che funzionava perché venivano fuori delle immagini che non erano legate strettamente al contesto dove erano state fatte. Come spesso nei miei lavori precedenti ho trovato dei frammenti, che sono proprio delle zone di contatto dove c’è una vicinanza estrema e c’è il tentativo di riprendere qualcosa di molto forte relativo alla relazione affettiva precoce del padre col piccoletto: proprio
la prima relazione. C’è anche qualcosa di ambiguo e quasi inquietante in certi casi, dato anche dall’uso dello sfaldamento del colore, della sovraesposizione e dal fuori fuoco. Cercavo un’immagine che andasse a toccare qualcosa che è molto profondo in noi e che è qualcosa di preconscio – come avevo anche scritto nel mio libro Con la coda dell’occhio. Scritti sulla fotografia. La fotografia che mi interessa è quella non tanto di tipo razionale, analitica e descrittiva ma quella che rimanda a un’esperienza percettiva forte.
MM: Però, al contrario di quanto fa Godard che utilizza immagini cui sovrappone parole non congrue con ciò che si vede, tu hai un tema identificabile. In altre parole, entrambi usate l’immagine che diventa abbacinante, quasi impossibile da guardare, per cui nel film il bianco succede magari a un rosso, per cui appare ancora più bianco, e nelle tue fotografie ci sono parti bianche che quasi impediscono di comprendere di che immagine si tratti, e tuttavia nel tuo caso esiste un soggetto che di per sé non è assolutamente distopico, ed anzi è fortemente significativo, come il rapporto tra padre e figlio. Da un lato l’immagine resa ancora più straniante dal contributo delle parole che non ne aiutano la comprensione e forse la distorcono, mentre in te l’immagine tanto luminosa da essere inizialmente non percepita nasconde il soggetto, ma non lo cancella: ti costringe a guardare meglio, a penetrare nell’immagine, e non dice affatto che l’immagine è incomprensibile.
MBC: È un lavoro proprio su quell’area, quella zona del contatto tra padre e figlio, proprio del loro corpo. Non è solo un lavoro sul padre ma su quella cosa meno definita costituita dalla loro relazione.
Il linguaggio che utilizzo e che ho utilizzato anche in precedenza, è in parte costituito dallo sfocato che non rende riconoscibile qualcosa, o almeno al primo momento.
Ci sono tanti aspetti: c’è la vicinanza, il frammento, la zona, la sovraesposizione, il colore intensissimo. Col tempo e con le prove ne è uscito qualcosa che mi convince e che appartiene al non razionale. L’immagine è sempre qualcosa che va oltre. Qualcosa che rimanda al nostro preconscio Credo che tutti questi aspetti insieme possano restituire bene quella particolare relazione che prima del “nuovo padre” era tipicamente la relazione della madre col bambino. Si può dire che forse negli ultimi tempi è anche quella che appartiene al padre e al piccolo. Qualcosa di primitivo, primordiale.
MM: A questo punto la domanda, anzi, le domande potrebbero essere: questa tua immagine sfocata da troppo colore – forse troppo calore? ... in senso metaforico – mira a sostenere che questo rapporto originario ed essenziale è sfocato perché i suoi confini emozionali non sono precisati, o sono troppo grandi per essere contenuti da una forma, oppure è un invito, quasi un espediente per costringere l’occhio ad affinare lo sguardo e a concentrarsi sul soggetto, altrimenti trattato come qualcosa di consueto e normale?
MBC: Direi più la prima. È interessante il colore intenso che diventa calore. In questo progetto c’è ancora di più l’aspetto legato alla frammentarietà, e comunque qualcosa legato all’esperienza sensibile, tattile, vicina alle sensazioni. Si tratta non di un linguaggio razionale ma prelinguistico, qualcosa che sta prima del linguaggio. Questa cosa c’era già in precedenza nei miei lavori, sicuramente era legato alla visione non descrittiva, non analitica ma al nostro vedere periferico, quindi a qualcosa che non è definito, l’ambiguo e l’incerto.
MM: ...Quindi è come se facessi un’analisi psicoanalitica quasi del rapporto padre e figlio senza passare attraverso l’analiticità, oppure aggirandola passando attraverso diciamo così questa primarietà del colore, che consideri un elemento prelinguistico?
MBC: Non è una cosa scientifica credo: è la primarietà del colore. È fondamentale insieme alla sovraesposizione e al fuori fuoco, al taglio della ripresa e alla visione ravvicinata. Ed è l’intuizione che ti guida per capire se quel risultato fotografico rimanda a un’esperienza percettiva forte per chi guarda. Sicuramente la scelta di fare questo tipo di fotografia in generale, e ora questo progetto, è legata alla mia storia e alla mia formazione psicanalitica e questo aspetto c’è sicuramente. Credo che la mia formazione dia importanza a un certo tipo di immagine visiva che appartiene alla storia dell’arte (e alla fotografia). Quello che conta per me è il risultato dell’immagine, ho studiato molto quali aspetti linguistici mi potevano portare a un risultato che fosse molto forte, molto intenso, che potesse rimandare a una relazione prelinguistica del rapporto primario padre-bambino. Oltre a quello che abbiamo detto prima è fondamentale il punto della ripresa, la non distanza, la prossimità e il contatto.
MM: Ciononostante si tratta di un rapporto, di un soggetto talmente forte, che è come se tu lo volessi quasi offuscare, nascondere dietro il colore, in modo che l’occhio non arrivi subito, e prima di vedere e di sapere che si tratta di un padre e di un figlio, con tutto quel che di emotivo questo rapporto si porta dietro, il processo visivo diventa un avvicinamento progressivo, non immediato, come se ci fosse bisogno di una presa di coscienza molto più lenta di quanto l’immagine “normale” ti consente.
MBC: Credo di sì, per esempio quell’immagine lì è “l’immagine”, è “il padre e il figlio” secondo me, non è quel padre e quel figlio lì. Quella fotografia della bambina che prende tra le mani il volto del padre, con quel taglio, facendo vedere questa zona di contatto rimanda a qualcosa che forse è in tutti noi, rimanda al nostro infans e al nostro preconscio.
È per questo che dici giustamente che non si vede tutto subito e ti accorgi piano piano, non è una descrizione immediata ma è qualcosa già di presente in noi nel profondo.
MM: Certo. Però facciamo un’ipotesi: prima parlavi dei pericoli della fotografia pubblicitaria e di famiglia, cui volevi assolutamente sfuggire, nonostante il soggetto sia uno dei più sfruttati in queste due tipologie. Dunque, perché fortunatamente non cadi in nessuno di questi territori? Perché il taglio della foto non vi appartiene, perché le persone non sono subito riconoscibili, perché le figure topiche di padre e figlio sono quasi dissolte dalla scelta dell’inquadratura e dal colore reso debordante...
MBC: Credo che sia proprio così.
MM: D’altro canto tu vuoi che la tua fotografia sia “padre e figlio”, e non il signor tale che è il padre di quel bambino o bambina: vuoi cioè un’astrazione, l’idea platonica di padre e figlio pur restando nell’ambito del reale. Per far questo la fotografia va decodificata fortissimamente, come se per raggiungere l’idea di paternità e di figliolanza (si dice così?...) ci volesse un processo di decodifica e di riconoscimento. Che cosa sto vedendo? Questo è il fatto.
MBC: Cercavo in questo modo di rendere qualcosa che potesse colpire, e sorprendere quindi. Forse questa cosa del non capire immediatamente è legata al fatto che ci siano delle zone, non dei particolari, ma delle aree, non c’è la riconoscibilità immediata delle due persone. Il soggetto è la relazione, il contatto, l’incontro tra i due. È un lavoro anche sul padre accogliente. La cosa importante per me non è la riconoscibilità del ritratto ma l’impatto e la forza esperienziale che può toccare qualcosa di profondo in noi: emozioni ed affetti.
MM: Certo, però i tuoi cicli precedenti erano tutt’altra faccenda rispetto all’utilizzo dello sfocato o di un colore abbacinante...
MBC: Anche nei progetti precedenti c’era l’uso dello sfocato già da Con la coda dell’occhio. Non ancora il colore abbacinante.
MM: In questo tuo studio, per esempio sono circondato da fotografie, come quelle della serie Con la coda dell’occhio, in cui al massimo utilizzi un fuoco selettivo...
MBC: È sfocato, uso il fuoco e il fuori fuoco, in Con la coda dell’occhio e nei lavori seguenti.
MM: Mi pare ci sia piuttosto un fuoco selettivo, e soprattutto una scelta dichiarata e consapevole del punto di vista da cui guardare le cose, che costruisce la sorpresa...
MBC: Il fuoco e il fuori fuoco ci sono sempre stati nei miei progetti fotografici e video, anche in quelle di Rumore di fondo, Primo campo e de Il Parco, l’abitare il parco pubblico... Ho molto sottolineato anche nei miei scritti questa cosa del fuoco-fuori fuoco perché mi ero riferita allo studio della visione periferica di Anton Ehrenzweig e all’idea che si possa percepire e conoscere anche meglio con la visione periferica e quindi con il fuori fuoco.
MM: Dunque in questa serie è come se tu avessi utilizzato una visione periferica però assolutamente centrata, che è un paradosso in un certo senso, no? Tutto è presente, e non sfugge all’obbiettivo, ma nello stesso tempo è periferico perché il taglio e l’utilizzo dello sfocato lo rendono tale, perché altrimenti sarebbe semplicemente, che so, una fotografia di famiglia ritagliata, una tipologia da cui sempre hai voluto sfuggire. Da questa prospettiva – metaforica e reale – questo tuo ultimo lavoro è assolutamente conseguente alle tue opere precedenti, quelle che hai sviluppato tanto a lungo: Primo campo, per esempio, è tale perché la visione ravvicinata di una parte del corpo insignificante per un adulto, è invece la prima cosa che un bambino vede?
MBC: È il campo visivo del bambino molto piccolo che sicuramente si può dire primo campo nel senso che è la figura famigliare. Ricordo che il progetto Primo campo è nato dopo la realizzazione della videoinstallazione Conversazione che ho presentato per la prima volta alla galleria Giò Marconi di Milano a metà degli anni Novanta. C’erano dieci monitor messi in cerchio ognuno con una persona ripresa mentre respirava con la stessa inquadratura di Primo campo. Ho messo al centro il respiro, cioè quello che c’è sotto alla conversazione.
MM: ...tornando a Primo campo è la prima cosa che si vede, (aggiungerei: parte della figura famigliare).
MBC: È come la visione del bambino molto piccolo in braccio alla mamma o comunque alla figura famigliare che vede e sente la “parte per il tutto” e “sa” che dietro a quella parte del corpo insignificante c’è la persona e la “sente”. È un lavoro quasi tattile.
MM: Certo che in quel caso lì l’idea è anche un’idea di tattilità, che esiste visibilmente (sembra un ossimoro...) nelle tue fotografie, nel senso che è tutto un toccare, sono corpi ravvicinati, è un contatto continuo, no? E la presenza dell’acqua accentua e fa da tramite a questo contatto, lo accelera e lo ingrandisce, come in un liquido amniotico.
MBC: Certamente l’acqua aumenta il senso dell’ambiguità nella vicinanza e nel contatto.
MM: E tu pensi che questo sarà il tuo nuovo filone? Certe volte penso ai tuoi lavori e mi sembra che esista un mainstream e dei rivoli collaterali, in cui colloco i tuoi “cieli” e anche la tua “acqua”, quella del mare, dei fiumi o dei canali (a Venezia), col suo continuo cambiamento e baluginio...
MBC: Questo elemento del sempre visto o del quotidiano lasciato cadere dalla mente c’è anche nel lavoro sul cielo e nel lavoro de Le ore blu – Giudecca. In questo lavoro l’interesse era fermarsi sulla riva del canale e semplicemente lasciare posare l’occhio sull’acqua e seguire lo scorrere del tempo.
Nel progetto sui cieli, il lavoro era sul passaggio delle stelle nel cielo dalla notte al giorno, il trapasso alla nostra vista, la sparizione. È quello che vediamo sempre e a cui non facciamo caso: il passaggio, delle stelle al nostro occhio ovviamente, perché le stelle hanno tutta una loro storia... sono ancora lì quando non le vediamo più.
MM: Diciamo che però in questo caso, non si tratta del cielo come meraviglia dell’universo, ma del cielo come percezione umana del cielo, e del tempo dell’essere umano scandito dal cambiare del cielo. È sempre l’umano il centro, anche se non è visibilmente presente.
MBC: Sì certo esatto... assolutamente, e sul tempo, il tempo che passa.
MM: ...mentre in questo ciclo, come nel video Tatay che hai esposto in Triennale a Milano, il soggetto è talmente fondamentale per il concetto di “umano” – vitale nel vero senso della parola, cioè rapporto con la vita che continua, viene protetta e “tramandata” di padre in figlio, appunto...
– che non vuoi correre il rischio del sentimentalismo o dello stereotipo, e allora un po’ lo nascondi.
MBC: Non credo sia nascosto ma piuttosto al centro, non il ritratto del padre-figlio ma il ritratto della loro relazione che è qualcosa di primordiale. Anche nella videoinstallazione Tatay, che ho presentato in Triennale e che adesso sarà al Museo degli Innocenti, dove ci sono dodici voci di padri di paesi diversi che cantano la ninnananna al loro bambino, ognuno nella propria lingua, sovrapponendosi l’una alle altre. Il momento è quello dell’accudimento, del far passare la paura al piccolo. Non è il padre superegoico, autoritario, ma è il padre affettivo (“il nuovo padre”). Anche qui c’è un interesse verso qualcosa, un’esperienza primitiva: il video è molto buio, vedi e non vedi, in cui c’è il gesto del cullare da parte del padre col suo piccolo, e quello che emerge è il prelinguistico.
Conversazione nel catalogo della mosta "Tatay. Con la coda dell'occhio", Galleria Il Ponte, Firenze